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Ocse: 500 miliardi di euro di sussidi a danno della biodiversità

Vanno tolti i sussidi che distruggono capitale naturale, pari a 10 volte quelli che lo preservano. Investire in attività ecocompatibili e meccanismi di carbon princing tra le soluzioni.

L’economia reale è minacciata dalle grandi questioni ambientali del nostro tempo, come perdita di biodiversità e cambiamenti climatici, bisogna intervenire sul piano fiscale per tutelare la salute degli ecosistemi da cui dipende il benessere umano.
A sostenerlo non è una delle tante associazioni ambientaliste in giro per il mondo ma l’Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che nel suo rapporto dal titolo “Biodiversity: Finance and the Economic and Business Case for Action” fa il punto della situazione sul degrado delle risorse naturali e sulle possibili soluzioni alla crisi climatica.
Nello studio vengono messi in luce alcuni dati poco rassicuranti - confermati anche dall’ultimo rapporto Ipbes, definito come la più grande valutazione sulla biodiversità fatta fino ad ora dall’uomo –, ad esempio viene sottolineato come negli ultimi decenni sia andata persa l’83% della biomassa dei mammiferi. Senza dimenticare che nel 2050 rischiamo di avere più tonnellate di plastica che di pesci nei nostri mari, che aumentano di anno in anno le emissioni gas serra, nonostante gli accordi presi sul piano internazionale, e che il 75% del suolo globale risulta già degradato.

Ma il documento, oltre a descrivere la situazione in cui versano i nostri ecosistemi, prova a fornire anche delle soluzioni capaci di tutelare la salute del capitale naturale. Innanzitutto, bisogna disinvestire dai settori che generano un danno per la salute umana e gli ecosistemi, identificate dalla teoria economica come esternalità negative. Non basta, infatti, finanziare solamente la costruzione di infrastrutture ed attività green, serve eliminare i sussidi dannosi alla biodiversità che nel mondo, sostiene il rapporto, ammontano a circa 500 miliardi di dollari l’anno. Una quota altissima, basti pensare che è di dieci volte superiore a quella che viene destinata per la tutela degli ecosistemi marini e terrestri. Se guardiamo solo all’Italia, il Ministero dell’Ambiente fa sapere che questa quota è di 16 miliardi di euro l’anno, cifra destinata soprattutto ad attività agricole poco attente alla tutela delle specie e al consumo di suolo, e al settore dei combustibili fossili.

Altro grosso aiuto potrebbe arrivare dal carbon pricing, soprattutto per quanto riguarda la lotta al cambiamento climatico. Fissare un prezzo alla tonnellata di carbonio emessa, può portare infatti le aziende a stare più attente alla fonte da cui traggono l’energia per i propri processi industriali e a farle rivolgere sul mercato per l’acquisizione di tecnologie pulite.
Inoltre, la cooperazione e la condivisione dei dati sul degrado degli ecosistemi può portare a intervenire in maniera più tempestiva i governi sulla perdita del capitale naturale. Governi che, infine, devono incentivare, anche con nuove regolamentazioni, imprese e banche che finanziano attività con all’interno delle proprie strategie l’impatto sulla biodiversità.

Autore

Ivan Manzo

Ivan Manzo

Laureato in Economia dell'Ambiente e dello Sviluppo e giornalista per Giornalisti nell’Erba. Houston, we have a problem: #climatechange! La sfida è massimizzare il benessere collettivo attraverso la via della sostenibilità in modo da garantire pari benefici tra generazioni presenti e future. Credo che la buona informazione sia la chiave in grado di aprire la porta del cambiamento. Passioni: molte, forse troppe.

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