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Mezzo pianeta da mettere in salvo

Un nuovo rapporto avanza l’idea di utilizzare in futuro la parte fino a ora meno sfruttata del pianeta, per far rifiatare quella maggiormente degradata

Se guardassimo il pianeta dallo spazio, quanta parte della superficie terrestre scopriremmo essere “libera” dall’azione antropica? È la domanda a cui hanno dato risposta una serie di scienziati che con lo studio “Global human influence maps reveal clear opportunities in conserving Earth’s remaining intact terrestrial ecosystems”, pubblicato il 5 giugno i risultati su Global Change Biology.
Da questa mappatura emerge che solo un quarto, tra il 20% e il 34%, della superficie del pianeta priva di ghiaccio registra segni “molto bassi” di “influenza umana”, tra cui alcune delle zone meno abitabili della Terra. Un fatto che fa ben comprendere quanto l’attività antropica si sia spinta nello sfruttamento delle risorse nel corso del tempo. Se invece passiamo da un livello “molto basso” di influenza a uno “basso”, allora la percentuale di utilizzo del pianeta sale tra il 48% e il 56% del pianeta. Un dato, questo, che potrebbe dare qualche speranza per il futuro.

“Sebbene i diversi usi della terra da parte dell’uomo minaccino sempre di più gli habitat naturali rimanenti della Terra, specialmente nelle aree più calde e più ospitali, quasi metà del pianeta rimane ancora in aree prive di un uso intensivo su larga scala", ha infatti affermato lo scienziato ambientale Erle Ellis dell'Università del Maryland, tra gli autori dello studio.
Il punto è che spesso le aree meno sfruttate coincidono con le zone che si sono rivelate nel tempo più ostiche per l’attività umana, dove l’estrazione di nuove risorse era in pratica meno agevole.
La maggior influenza da parte dell’uomo è avvenuta attraverso diverse attività, come l’urbanizzazione, la silvicoltura e l'agricoltura, tutte pratiche effettuate proprio su quei paesaggi, spesso ricchi di biodiversità, che hanno presentato opportunità più facili da cogliere, in modo da soddisfare “gli immediati bisogni umani”. Al contrario, i deserti presenti nei luoghi più caldi del mondo, o le terre desolate ghiacciate con un clima più rigido, sono stati ignorati dall’attività umana. Basti pensare che meno dell’1% delle praterie temperate, delle foreste di conifere tropicali e delle foreste secche tropicali segnalano un'influenza umana “molto bassa”. E lo stesso discorso vale per le praterie tropicali, le foreste di mangrovie e le praterie montane, posti unici nel mondo, capaci di produrre una serie di beni e servizi essenziali al benessere umano.

In base dunque a questi risultati, la proposta che il rapporto avanza è semplice: in futuro si dovrebbe riorientare il fenomeno antropico proprio sui luoghi fino a ora meno colpiti, in modo da permettere contemporaneamente il recupero per le zone maggiormente sfruttate, che rischiano di non riuscire più a sostenere la pressione esercitata dall’uomo. Una sorta di “invasione” controllata, come la definiscono i ricercatori. Dato che “circa il 50% della superficie terrestre del pianeta subisce una bassa influenza umana, si potrebbero realizzate delle azioni coordinate a livello globale in modo da conservare proattivamente almeno il 50% del pianeta terrestre", si legge infine nello studio.

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Parole chiave

biodiversità

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Autore

Ivan Manzo

Ivan Manzo

Laureato in Economia dell'Ambiente e dello Sviluppo e giornalista per Giornalisti nell’Erba. Houston, we have a problem: #climatechange! La sfida è massimizzare il benessere collettivo attraverso la via della sostenibilità in modo da garantire pari benefici tra generazioni presenti e future. Credo che la buona informazione sia la chiave in grado di aprire la porta del cambiamento. Passioni: molte, forse troppe.

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