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Eni a processo per disastro ambientale in Africa

Alla compagnia petrolifera toccherà difendersi dalle accuse della comunità degli Ikebiri. È la prima volta che una comunità africana ottiene udienza in Italia

Già finita nell’occhio del ciclone mediatico per fatti extragiudiziari – a fine 2017 era stata la prima compagnia petrolifera al mondo a fiondarsi sul via libera dato da Trump per il permesso all’esplorazione nel mar di Beaufort, al largo delle coste dell’Alaska – l’azienda col marchio a 6 zampe torna a far parlare di se. Questa volta per questioni giudiziarie. L’Eni deve infatti rispondere alle accuse portate avanti dalla comunità degli Ikebiri, e deve farlo in un tribunale italiano.

Eni a processo in Italia
La novità è proprio questa: ad Eni, ed alla sua controllata Nigerian Agip Oil Company (Naoc), toccherà difendersi in un tribunale italiano. Il processo si svolgerà presso il Tribunale di Milano a partire dal 18 di aprile. Novità, perché è la prima volta che una comunità africana riesce ad ottenere udienza nel Paese d’origine della compagnia petrolifera. La richiesta è arrivata da parte del popolo nigeriano degli Ikebiri che, stando alle dichiarazioni, si dice “impossibilitato ad ottenere giustizia in Patria”.
Un fatto storico, dunque, come afferma Godwin Ojo, direttore di Friends of the Earth Nigeria subito dopo l’udienza preliminare del 9 gennaio scorso. Dove si temeva “Il possibile rifiuto del giudice nell’accogliere il provvedimento per mancanza di giurisdizione” spiega Luca Saltalamacchia, avvocato civilista che segue la causa in rappresentanza degli Ikebiri, che aggiunge: “Il giudice ha scelto invece di non pronunciarsi su questo punto, aggiornando il processo al 18 aprile quando si entrerà nel merito della questione. E questo è sicuramente un elemento positivo”.
Ma da dove nasce la decisione di ricorrere ad un tribunale italiano? Lo spiega sempre Saltalamacchia: “In Nigeria episodi di questo tipo sono molto frequenti e purtroppo per le comunità è molto difficile avere giustizia. Anche le poche volte in cui riescono ad arrivare ai tribunali e a ottenere sentenze favorevoli, difficilmente queste vengono implementate”.

Secondo l’accusa le 2 aziende sarebbero responsabili di uno sversamento illecito di petrolio nella regione de Delta del Niger durante il 5 aprile del 2010 (quando un condotto petrolifero esplose nello stato del Bayelsa a circa 250 metri di distanza da un torrente), e della successiva contaminazione di 1,75 ettari di territorio da cui dipende la sussistenza della comunità degli Ikebiri che, come le altre popolazioni del luogo, vive soprattutto di pesca ed agricoltura.
La comunità, insieme a varie associazioni ambientaliste tra cui Friends of Earth citata precedentemente, chiedono ora un provvedimento di bonifica della superficie inquinata più un risarcimento dei danni ambientali generati pari a 2 milioni di euro.
Dal canto della difesa, Eni si dichiara estranea ai fatti. Naoc, invece, afferma di aver già effettuato tutte le operazioni di bonifica necessarie riconoscendo, quindi, il danno, ma minimizzandone l’entità (Naoc parla di uno sversamento di 50 barili di greggio, dato ben al di sotto di quello stimato da Friends of Earth che indica in 150 barili quelli finiti solamente nel corso d’acqua). Inoltre fa sapere di aver avanzato una proposta di risarcimento alle comunità del luogo di circa 20 mila euro.

Adesso la palla passa alla magistratura italiana. Toccherà a lei stabilire l’entità del danno e la quota da destinare alla bonifica. Ma c’è di più. Perché la richiesta da parte degli Ikebiri è storica pure perché simbolica. Assume il significato della lotta ai disastri ambientali causati nei Paesi africani da parte delle multinazionali occidentali con l’aiuto dei rispettivi Governi. Come ha tenuto a sottolineare Godwin Ojo: “Negli ultimi 50 anni ci sono stati oltre 10mila sversamenti di petrolio nell’area del delta del Niger e in nessuno di questi casi, in nessuno, si è provveduto a una adeguata opera di bonifica ambientale”. 
Nigeria che, ricordiamo, si è confermato nel 2017 il Paese da cui arrivano la maggior parte dei migranti in Italia (circa 18 mila). E qui sorge un dubbio: sarà mica evitare l’ipersfruttamento delle risorse e la conseguente distruzione degli ecosistemi parte della soluzione in grado di placare flussi migratori, tutelare il benessere collettivo e, infine, aiutarli “a casa loro”? Anche alla magistratura, l’ardua sentenza.

Autore

Ivan Manzo

Ivan Manzo

Laureato in Economia dell'Ambiente e dello Sviluppo e giornalista per Giornalisti nell’Erba. Houston, we have a problem: #climatechange! La sfida è massimizzare il benessere collettivo attraverso la via della sostenibilità in modo da garantire pari benefici tra generazioni presenti e future. Credo che la buona informazione sia la chiave in grado di aprire la porta del cambiamento. Passioni: molte, forse troppe.

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