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Solito “clima” al G20 di Amburgo

Nessuna novità sul clima, a parte uno studio che mette spalle al muro tutti i Paesi del G20

Con gli Stati Uniti a fare sempre la parte del “bastian contrario” c’è chi ha ormai ribattezzato il vertice del G20 tedesco come il “G19+1”. Proprio a sottolineare la spaccatura sulle politiche che Trump porta avanti rispetto a tutti gli altri capi di governo. Tra gli oggetti della discordia, come al solito, il climate change.

Un summit difficile quello trascorso da Angela Merkel, padrona di casa, che oltre a dover mediare con Trump, che soli pochi mesi prima l’aveva definita come “la rovina della Germania”, ha dovuto tenere alta la tensione pure per gli scontri avvenuti fuori dal palazzo a causa dei black bloc.
Trump che alla fine del vertice, però, deve aver cambiato idea proprio sulla Merkel – “è una donna straordinaria” ha dichiarato - e forse per via di un comunicato finale che tutto sembra fuorché una dichiarazione di guerra al cambiamento climatico.
Comunicato dove viene di nuovo specificata la “particolare” posizione USA a favore di un “uso pulito” dei combustibili fossili: “Gli Stati Uniti dichiarano che si sforzeranno per lavorare a stretto contatto con altri Paesi, per aiutarli ad accedere e ad utilizzare combustibili fossili in modo più pulito ed efficiente e a dispiegare energie rinnovabili e da altre fonti pulite”, si legge dal documento.
“Se c’è un dissenso bisogna scriverlo nel comunicato – dichiara, invece, Merkel - Sappiamo tutti che gli Usa vogliono uscire dall'accordo sul clima, ma io confermo nel dire che tutti gli altri Paesi concordano sul fatto che non si possa tornare indietro. E sulla marcia indietro di Trump non sono ottimista”.

Dalle parole ai fatti
Va detto che Trump, fino ad ora, ha semplicemente fatto quanto dichiarato sia prima come candidato, che dopo come premier.
Gli altri Paesi, invece, rispettano quanto detto? Stanno provando a mettere in campo le politiche necessarie al contenimento dell’aumento medio della temperatura entro i 2 famosi gradi (ma meglio se 1,5) previsti dall’Accordo di Parigi?
Da quanto emerge da “Talk is Cheap: How G20 Governments are Financing Climate Disaster” (parlare è semplice: come i Governi del G20 stanno finanziando il disastro climatico), report dal titolo emblematico presentato proprio in occasione del G20, non sembrerebbe.
Nello studio-denuncia curato da diverse ONG e associazioni ambientaliste (tra cui Friends of the Earth US, Sierra Club e WWF Europe) traspare, infatti, che i Paesi dovrebbero dedicare meno tempo a fare la morale a Trump sulle questioni ambientali, anche perché francamente troppo facile, e più tempo all’azione climatica.
Perché? Perché i Paesi del G20, attualmente, stanno ancora elargendo finanziamenti pubblici per i combustibili fossili in una quantità tale da essere pari a 4 volte quella elargita per le energie rinnovabili. Le politiche dei Governi dimostrano in questo modo, quindi, di essere ancora troppo orientate in difesa dell’oro nero, del gas e del carbone.
Nel biennio 2013-2015 sono stati erogati ogni anno 71,8 miliardi di $ per i progetti legati alle fonti fossili contro i 18,7 miliardi di $ per quelli legati alle rinnovabili.
È il Giappone a detenere il primato con i suoi 16,5 miliardi di $ annui, cifra che bisogna dividere per 6 se vogliamo trovare i fondi destinati all’energia verde.
La Cina, nonostante gli ultimi sforzi per ripulire la sua aria e la sua immagine, non riesce comunque ad evitare il disastro espresso nei numeri: 15,5 miliardi di $ per i fossili e solo 85 milioni per rinnovabili.
La nazione che nel rapporto fa un po’ meglio, ma si parla sempre di un pro-fossili, è la Germania con 3,5 miliardi di $ pubblici alle fossili e 2,4 alle rinnovabili.
L’Italia, invece, al netto dei suoi proclami green sbandierati a mezzo mondo, quando si parla di denaro pubblico per le rinnovabili, dimostra di essere dal braccino molto corto: 2,1 miliardi di $ annui per i progetti riconducibili alle fonti fossili contro gli appena 123 milioni per le fonti pulite, un rapporto di addirittura 17:1.
Come dire: “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Magari c'è del petrolio al suo interno…

Autore

Ivan Manzo

Ivan Manzo

Laureato in Economia dell'Ambiente e dello Sviluppo e giornalista per Giornalisti nell’Erba. Houston, we have a problem: #climatechange! La sfida è massimizzare il benessere collettivo attraverso la via della sostenibilità in modo da garantire pari benefici tra generazioni presenti e future. Credo che la buona informazione sia la chiave in grado di aprire la porta del cambiamento. Passioni: molte, forse troppe.

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