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Oltre il PIL? Bisogna mettere al centro il capitale naturale

Per la Green economy coalition i beni ambientali devono essere il centro dell’analisi per valutare in modo corretto il benessere di un Paese

Prima ancora della dichiarazione di Bob Kennedy – “misura tutto tranne quello per cui vale la pena vivere” – fu persino il creatore, Simon Kuznets, ad accorgersi che sarebbe stato sbagliato affidare solo al PIL il benessere di un Paese.
Un concetto che, seppur con colpevole ritardo, sembra finalmente aver toccato i piani alti del business internazionale. Ne è una dimostrazione l’Inclusive development index (Idi) presentato lo scorso febbraio durante il summit di Davos dal World economic forum. Perché “decenni passati a dare priorità alla crescita economica hanno compromesso l’equità sociale facendo aumentare il divario tra ricchi e poveri”.
Indice - un mix tra inclusione, equità intergenerazionale, gestione sostenibile delle risorse naturali e aspettativa di una vita sana - che nella speciale classifica dei 29 Paesi con “economie avanzate” pone l’Italia al 27esimo posto, davanti solo a Portogallo e Grecia.

Tra gli effetti indesiderati, però, non figura solo la disuguaglianza. L’obiettivo unico della crescita economica ha negli anni tolto l’attenzione dei decisori politici pure dai gravi rischi legati al cambiamento climatico ed alla perdita di biodiversità, tanto per citarne alcuni.
Tuttavia l’Idi, e gli altri report che vanno in questa direzione, pur rappresentando un buon inizio, sono ancora lontani dall’essere strumenti perfetti per misurare il benessere collettivo: risultano troppo ancorati all’economia “tradizionale”.
L’accusa arriva direttamente dalla Green Economy Coalition, alleanza che al suo interno annovera più di 50 membri – come il WWF, la certificazione per un taglio sostenibile delle foreste FSC e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente UNEP -.
Il team di economisti della coalizione è convinto che la ricchezza nazionale sia ben più influenzata dal capitale naturale rispetto a quanto mostrato dai report.
Per gli esperti, i modelli proposti fino ad ora sulla scena internazionale tendono a sottostimare il reale valore della natura, sia da un punto di vista umano che finanziario. Modelli troppo superficiali pure nel proporre soluzioni tecnologiche come sostitutive alle risorse naturali.
All’origine ci sarebbe una mancanza di informazione. Non disponendo, infatti, di una quantità tale di numeri e di dati necessari ad un’analisi profonda delle mutazioni subite dalle nostre economie in seguito alla perdita di biodiversità, si finisce per sottostimare il reale valore degli ecosistemi.
Ne è un esempio l’incapacità di attribuire un prezzo a determinati servizi ecosistemici, fondamentali per la sopravvivenza del genere umano. Uno su tutti, il servizio dell’impollinazione, necessario per la riproduzione delle piante. Il rischio di non possedere abbastanza dati, è quello di non valutare in modo corretto i benefici multipli che l’ambiente offre e, in economia, tutto ciò che è privo di prezzo finisce per essere eccessivamente sfruttato.
In sintesi, l’alleanza suggerisce che sono sì necessarie alternative al PIL per misurare in modo corretto il benessere di un Paese ma, per andare realmente “oltre” non deve prescindere dalla gestione sostenibile della più grande azienda che possediamo: la natura. E per farlo, abbiamo bisogno di numeri.

Autore

Ivan Manzo

Ivan Manzo

Laureato in Economia dell'Ambiente e dello Sviluppo e giornalista per Giornalisti nell’Erba. Houston, we have a problem: #climatechange! La sfida è massimizzare il benessere collettivo attraverso la via della sostenibilità in modo da garantire pari benefici tra generazioni presenti e future. Credo che la buona informazione sia la chiave in grado di aprire la porta del cambiamento. Passioni: molte, forse troppe.

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