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Sulla rotta di un capo “verde”

I capi d'abbigliamento e, più in generale, i tessuti per essere concretamente sostenibili devono attraversare un lungo ciclo di verifiche
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Articolo a firma di Veronica Caciagli e Letizia Palmisano “L’industria tessile è una delle industrie con la più lunga e complicata catena di produzione industriale – si legge in apertura del report dell’Unione europea “Environmental Improvement Potential of Textiles (IMPRO-Textiles)” –. Impiega operatori dei settori agricoli delle fibre chimiche, tessili e abbigliamento, commercianti di vendita all’ingrosso e al dettaglio, servizi, trattamento dei rifiuti. È un’industria frammentata ed eterogenea, dominata da piccole e medie imprese, che compongono più dell’80% del mercato”. Il Dipartimento dell’Ambiente, dell’Alimentazione e degli Affari Rurali (Defra) ha calcolato in oltre 500 miliardi di sterline il valore del comparto abbigliamento a livello globale, con oltre 26 milioni di persone impiegate. Questa storia di successo nasconde, però, il suo lato oscuro: l’alto impatto ambientale e sociale lungo il ciclo di produzione e dopo l’uso. Combinata con l’aumento dei consumi, appare chiaramente la necessità di rendere più sostenibile quest’importante fetta della nostra economia. Cosa significa rendere quest’industria più sostenibile? Idealmente, occorre minimizzare gli impatti ambientali e sociali negativi lungo tutto il processo. Il ciclo di vita inizia nella fase di produzione: dalla materia prima, ad esempio nella coltivazione del cotone, per arrivare alla fibra, al filo, al tessuto e, infine, alla produzione del capo di abbigliamento. Seguono poi la distribuzione e l’utilizzo, con l’impatto dei lavaggi, asciugature e stirature. Per ultimo, il fine vita del prodotto, con l’eventuale riuso o riciclo, oppure il conferimento in impianto di incenerimento o discarica. Ci sono, quindi, diverse maniere per cui un capo di abbigliamento può dirsi sostenibile, o, almeno, più sostenibile. Ad esempio, con la produzione con tessuti in cotone biologico, ottenuto senza l’utilizzo di prodotti chimici nell’agricoltura; oppure con la canapa, che non richiede l’uso di pesticidi ed erbicidi; con l’utilizzo di macchinari, come lavatrici ed asciugatrici, nella produzione che consumano meno energia. Per gli aspetti di carattere sociale, si possono scegliere vestiti a marchio Fair Trade, che garantisce eque condizioni lavorative. La sostenibilità dell’abbigliamento è, quindi, un fenomeno complesso e variegato, con catene della produzione che spesso travalicano i confini nazionali e continentali e, perciò, rendono difficoltosa la trasparenza dei processi. Dal punto di vista ambientale, secondo il già citato report IMPRO-Texiles dell’Unione europea, le fasi che incidono di più, causando conseguenze negative sull’ambiente, sono la produzione e l’utilizzo: in particolare, gli impatti ambientali maggiori sono associati alla coltivazione del cotone, sia per la quota di produzione di tessuti che per la natura della sua produzione. La sostituzione del cotone con altre fibre, come lino e canapa, rientra tra le 13 azioni prioritarie selezionate per ridurre gli impatti ambientali del settore abbigliamento in Europa. Le analisi suggeriscono che è possibile un significativo miglioramento degli impatti: il Defra ha elaborato anche un piano di azione, la Sustainable Clothing Roadmap, finalizzato a migliorare la performance ambientale e sociale del settore dell’abbigliamento, costruendo sulle iniziative già esistenti un percorso di azioni coordinate con vari stakeholder della filiera produttiva. Una semplice azione per ridurre l’impronta ecologica dell’abbigliamento è a disposizione di tutti: il riciclo.

LA RACCOLTA DIFFERENZIATA DEL TESSILE

Cosa avviene ai vestiti dismessi gettati nei secchi della raccolta? Spesso il nostro interesse finisce con il conferimento, ignorando così l’esistenza di un mondo, quello dell’abbigliamento usato, che vive un periodo di profonda evoluzione. Tale mercato è, infatti, profondamente legato a quello dei vestiti nuovi e, in anni di crisi economica, la riduzione del ricambio degli abiti ha come conseguenza una diminuzione del conferimento dei prodotti tessili di seconda mano.

DIFFICILE CHIAMARLO RIFIUTO

Di solito un abito usato non viene considerato un rifiuto - come posto in evidenza da Edoardo Amerini, presidente del CONAU (Consorzio Nazionale Abiti e Accessori Usati), nell’intervento al Forum La Moda Sostenibile 2012 – e quindi, invece di buttarlo, si dà in beneficenza. “Il tessile usato viene definito rifiuto per esigenza normativa, - ha specificato Amerini - ma la sua storia è differente. Per questa ragione in Italia e in tutti i Paesi occidentalizzati sono presenti cassoni per la raccolta separata degli indumenti usati”. Tra quelli conferiti, ben il 70% è idoneo al riutilizzo. Il materiale non riutilizzabile è impiegato quale materia prima seconda per realizzare pezzame, materiali per l’imbottitura e materiale fonoassorbente. Solo una parte residua, quindi, è destinata allo smaltimento. In Europa è posta grande attenzione al riciclo di quel che il DM 5 febbraio 1998 definisce “materiale costituito da indumenti, accessori di abbigliamento ed altri manufatti tessili confezionati di lino, cotone, lana, altre fibre naturali, artificiali e sintetiche, non impregnati da oli, morchie, non contenenti materiali impropri”. In tal novero rientrano indumenti ed accessori di qualsiasi materiale, scarpe, guanti, borse, ecc., ma anche altri manufatti (lenzuola o tovaglie) di materiale tessile. Grazie ai dati forniti dal Consorzio Nazionale dell’Abbigliamento Usato e dal Rapporto “Italia del Riciclo 2011”, emerge che in Europa sia stimabile un consumo medio annuo pro-capite di 10 kg di abbigliamento e accessori e una intercettazione di rifiuto di queste frazioni merceologiche di circa il 70%. In Italia tale stima si attesta su circa 14 kg l’anno e i dati della raccolta, anche se in crescita negli ultimi anni, non sono soddisfacenti. La frazione tessile copre circa l’1% dei rifiuti organici avviati al riciclaggio. Se nel 2008 venivano differenziate solo 80.000 tonnellate di tessile (pari a 1,3 kg pro-capite) nel 2012, secondo il Rapporto Rifiuti Solidi Urbani 2013 dell’ISPRA, si è saliti a 99.900 tonnellate, arrivando a 1,7 kg pro-capite, pari a circa il 12% del totale riciclabile e nelle città con più di 200.000 abitanti il dato sale a 1,81 kg. Al Nord si sono registrati 2.0 kg nel 2011 e 1.9 kg nell’anno successivo, al Centro si è passati da 1.9 a 2.1 kg, mentre al Sud il dato è stabile a 1,1 kg, anche se la regione regina di questa classifica è la Basilicata con 2.7 kg. Per quanto attiene le grandi città, Verona è la prima con 3,56 kg, seguita da Roma con 2,97 (dati 2011). In relazione alla presenza o meno nei comuni di una raccolta differenziata organizzata per il tessile nel 2011, i dati si attestavano al 61,2% nei comuni del Nord, 57,5% del Centro e 41,1% del Sud. Secondo “L’Italia del riciclo 2011”, l’obiettivo da raggiungere dovrebbe essere tra i 3 e i 5 kg, arrivando a raccogliere 240.000 tonnellate di frazione tessile che garantirebbe un risparmio annuo sui costi di smaltimento dei rifiuti urbani di 36 milioni di euro e una forte riduzione delle emissioni di CO2 grazie all’immissione nel mercato di materie prime seconde e al risparmio di materie vergini. Uno studio condotto nel 2008 dall’Università di Copenaghen evidenzia che il riciclo di 1 kg di vestiti garantirebbe, in media, 3,6 kg di CO2 non emessi, un risparmio di 6.000 litri di acqua e la riduzione di 0,3 kg di fertilizzanti e di 0,2 kg di pesticidi.

GLI ATTORI DELLA RACCOLTA DEL TESSILE

I sistemi di raccolta - come evidenziato dal “Rapporto Nazionale sul Riutilizzo 2012” stilato dall’Occhio del Riciclone - sono nati per scopi di beneficenza con sistemi porta a porta. Da 20 anni, invece, il sistema utilizzato è quello dei classici cassoni gialli. Alle Onlus e agli enti caritatevoli sono andati affiancandosi cooperative sociali. In alcuni casi la raccolta di indumenti è curata direttamente dalle aziende di igiene urbana. La più grande realtà del settore a livello nazionale è Humana, che gestisce 15.000 tonnellate (circa il 15% del totale nazionale) grazie a 3.600 cassoni ubicati in Piemonte, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna, Marche ed Abruzzo. Una quota minore, ma significativa, è intercettata da reti abusive che trattano tali merci a scopi commerciali, sebbene dichiarino spesso di agire per beneficenza. Le reti di raccolta donano i capi a chi ne ha bisogno, gestiscono direttamente negozi vintage o producono pezzame. Nel resto dei casi le merci vengono vendute agli intermediari. In Italia la maggior parte degli intermediari e dei grossisti di tessile usato si trova nella zona di Prato ed Ercolano. Le attività si sviluppano dalla semplice commercializzazione dei prodotti così come acquisiti, anche verso mercati esteri, al trattamento (igienizzazione inclusa), classificazione e distribuzione finalizzati alla rivendita attraverso i venditori (ambulanti) italiani o per realizzare pezzame o altri prodotti derivati. In merito alla vendita al dettaglio, secondo i dati dell’Occhio del Riciclone, il numero degli ambulanti in questo settore oscilla tra le 4.000 e le 6.000 unità, i negozi in conto terzi che trattano l’abbigliamento usato dovrebbero essere sui 4.000, mentre quelli senza formula conto terzi intorno agli 800. Numeri importanti sono quelli delle esportazioni: l’Italia si colloca al settimo posto a livello mondiale, con flussi rivolti in particolar modo verso Paesi a reddito pro-capite basso.

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