ambiente2-1130x300.jpg
  • Home
  • AMBIENTE
  • Primo piccolo passo avanti sui migranti climatici

Primo piccolo passo avanti sui migranti climatici

C’è un primo accordo nel riconoscere il cambiamento climatico tra le cause delle migrazioni, ma la strada dell’iter legislativo è ancora lunga e complicata. Ungheria e USA si sfilano

Qualche anno fa è toccato all’Ipcc, l’ente scientifico dell’Onu che svolge oltre al lavoro di ricerca anche quello di supporto alla conferenza sul cambiamento climatico, introdurre l’argomento affermando che nel 2050 rischiamo di avere più di 200 milioni di persone, a livello globale, costrette a spostarsi per via del clima impazzito. Dei veri e propri rifugiati ambientali, o meglio, migranti climatici, che andranno in cerca di una “nuova casa” per fenomeni correlati all’aumento della temperatura come desertificazione, ondate di calore e siccità.
Un lavoro più recente, invece, mette in risalto i numeri provenienti dall’Africa subsahariana, l’Asia del Sud e l’America latina. La Banca Mondiale stima che solo le tre aree geografiche potrebbero produrre circa 143 milioni di migranti climatici al 2050. Senza dimenticare il rapporto Lancet Countdown, che un paio di anni fa parlava di un miliardo di profughi climatici, sempre entro il 2050.

Stime che la dicono lunga sull’urgenza di affrontare la questione sul piano nazionale e internazionale. Perché queste “nuove migrazioni” non posseggono ancora una tutela legislativa, uno “status” come ce l’hanno, ad esempio, i rifugiati di guerra.
È per questo che si è aperta, finalmente, la discussione in seno al “Global Compact”, iniziativa voluta dall’Onu per incentivare politiche sostenibili sul piano globale. Un iter, deve essere chiaro, ancora ben lontano dal tutelare i migranti climatici sul piano legislativo e dell’accoglienza, ma che ha avviato il processo che porterà a inserire il cambiamento climatico tra le cause delle migrazioni nel mondo.
Il “patto migratorio”, infatti, prevede di riconoscere eventi estremi quali siccità, desertificazione e innalzamento del mare, tra i motivi che costringono le persone a lasciare le proprie case. Una svolta che però “rappresenta solo l’inizio di un processo lungo e complesso”, ha dichiarato Walter Kaelin della Platform on disaster displacement alla Thomson Reuters foundation. Ma che fa segnare un buon primo punto per la risoluzione del problema dato che “è la prima volta che la comunità internazionale riconosce che migrazione e sfollati possono essere generati dai disastri provocati dal riscaldamento globale e si assumono degli impegni in merito, aprendo un dibattito e ragionando su come affrontarli”, ha concluso Kaelin.

L’accordo raggiunto è però ancora molto debole e, soprattutto, non vincolante. In pratica non obbliga gli Stati che hanno aderito ad agire, essendo su base volontaria. Un aspetto che rende ora fondamentale il ruolo che decideranno di giocare i governi. Conterà infatti in che modo e con quale velocità i Paesi avranno intenzione di affrontare l’argomento, sia sul piano legislativo che in fase decisionale.
Pur avendo al momento soltanto un valore di tipo simbolico, sono comunque arrivate già le prime grane diplomatiche. Perché gli Stati Uniti hanno mantenuto la propria posizione di ripudio verso la scienza climatica e non si sono unite ai 190 Paesi firmatari. Con loro, si è schierata pure l’Ungheria che ha definito l’accordo una vera e propria “minaccia per il mondo” mostrando le intenzioni di lasciare il tavolo del Global Compact.
Certo è che “dopo questo patto, nessuno potrà più dire: non vediamo una relazione tra cambiamenti climatici, spostamenti e migrazioni”, fa sapere invece Sven Harmeling, responsabile del cambiamento climatico e della politica di resilienza del gruppo di aiuti Care international.
L’accordo raggiunto è frutto di un pensiero portato avanti dal 2015, anno che ha registrato il più grande afflusso di rifugiati e migranti nel mondo dai tempi della seconda guerra mondiale.

Condividi

Parole chiave

clima | migrazioni

Di' che ti piace su...

Autore

Ivan Manzo

Ivan Manzo

Laureato in Economia dell'Ambiente e dello Sviluppo e giornalista per Giornalisti nell’Erba. Houston, we have a problem: #climatechange! La sfida è massimizzare il benessere collettivo attraverso la via della sostenibilità in modo da garantire pari benefici tra generazioni presenti e future. Credo che la buona informazione sia la chiave in grado di aprire la porta del cambiamento. Passioni: molte, forse troppe.

Ultime pubblicazioni