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L’oro verde italiano: l’olio

Un mercato sostanzialmente stabile, ma in crescita nella direzione dell’export. E con nuove tendenze che vedono l’olio, vergine o usato, migrare verso nuovi e insoliti usi
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Articolo a firma di Veronica Caciagli e Letizia Palmisano

Il mondo degli oli in Italia attraversa migliaia di imprese, in diversi settori produttivi, dall’agricoltura, alla lavorazione, dal recupero agli utilizzi alternativi. Un viaggio ci permette di raccontare i principali dati del mercato di un prodotto tradizionale nostrano quale l’olio d’oliva – di cui l’Italia è tra i leader a livello mondiale – ma anche delle novità degli ultimi decenni, come l’olio di semi di canapa. Il tutto passando attraverso la scoperta di usi alternativi, come la biocosmesi, nonché del recupero di residui e sottoprodotti di lavorazione per la produzione di biocarburante sostenibile.

L’evoluzione del mercato italiano dell’olivicoltura

Secondo i dati diffusi da Unaprol nell’aprile 2013, nel 2012 in Italia sono stati venduti più di 217 milioni di litri d’olio di oliva, per un controvalore di 850 milioni di euro, con una lieve contrazione del 1% rispetto al dato dell’anno precedente. La ripartizione del mercato vede il dominio dell’olio extravergine di oliva con il 72%, seguito dall’olio di oliva 13% e dall’olio “a marchio 100% italiano”, che ha conquistato il 12%. Pur se in crescita nelle vendite (+ 1% rispetto all’anno precedente) rimangono di nicchia gli oli con certificazione DOP e IGP e quelli biologici: sia i prodotti a marchio di qualità che quelli con certificazione biologica hanno quote di mercato ancora inferiori all’1%. Per entrambi, i mercati interni più importanti rimangono quelli del nord Italia, in particolar modo della Lombardia. Come sottolineato dall’Osservatorio Internazionale di Olivicoltura Biologica in merito ai cambiamenti nelle tendenze degli acquisti nel settore olivicolo, ciò che è cambiato di recente, anche a seguito della crisi dei consumi, è la composizione dei mercati interni ed esteri. Se la contrazione dei redditi italiani ha “spostato” parte del mercato su oli qualitativamente poco attraenti, ma dal costo più competitivo (con un significativo +51% delle vendite in Italia dei prodotti provenienti dal nord Africa), i produttori italiani, in cerca di “palati più raffinati” e con maggiori disponibilità economiche, hanno fortemente incrementato le vendite all’estero. A livello di export, la bilancia commerciale degli oli italiani ha fatto, infatti, registrare un deciso segno positivo con 416 mila tonnellate, che costituiscono il 3,5% in più rispetto al 2011. Oltre il 70% della quota mercato estera è poi composta dagli oli di pregio, quali extravergini e vergini, che svolgono il ruolo di testimonial della tradizione d’eccellenza dell’alimentazione italiana. I Paesi ove il nostro oro verde è più apprezzato sono gli Stati Uniti, seguiti dalla Germania, si registra anche una forte crescita nei mercati asiatici, con il Giappone che segna un +23% e la Cina +20%.

I marchi di qualità UE: DOP e IGP dell’olio in Italia

DOP e IGP sono marchi di qualità, riconosciuti a livello europeo, nati nel 1992 per armonizzare le diverse normative emanate dai singoli Stati membri, per salvaguardare la “tipicità” dei prodotti agroalimentari dalla contraffazione su tutto il territorio UE. Per assicurare al proprio olio il fregio del marchio di qualità (sia DOP che IGP), l’olivicoltore dovrà attenersi al disciplinare di produzione e sottoporsi ai controlli dell’ente di certificazione indipendente riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. DOP è l’acronimo di Denominazione di Origine Protetta e può essere attribuito solo a quei prodotti agricoli o alimentari le cui caratteristiche qualitative dipendono esclusivamente dal territorio in cui viene prodotto. Rientrano nel concetto di ambiente geografico di riferimento sia i fattori naturali (clima, caratteristiche ambientali) che quelli umani (ivi incluse le tecniche di produzione e trasformazione) che caratterizzano quel prodotto rendendolo unico e inimitabile. Ai fini dell’ottenimento del marchio DOP è necessario che l’intero ciclo produttivo, dalla coltivazione alla raccolta sino al confezionamento del prodotto finito, venga lavorato all’interno dell’area geografica delimitata dal proprio marchio. La DOP garantisce così la tracciabilità del prodotto consentendo ai consumatori di individuare l’origine della materia prima e il luogo di lavorazione e trasformazione. L’Indicazione Geografica Protetta (IGP) è un marchio che identifica prodotti alimentari o agricoli e per ottenerlo è necessario che anche solo una sola fase del processo produttivo abbia legame con la zona geografica di riferimento. Nel mondo dell’olio italiano, ad oggi, l’unico olio extravergine d’oliva ad aver ottenuto il riconoscimento IGP è quello ‘Toscano’ per il quale, in realtà, il disciplinare impone obblighi simili a quelli previsti per il marchio DOP. Infatti, come riportato nel Disciplinare di Produzione del Consorzio IGP Toscano, tutte le fasi di produzione del loro olio extravergine di oliva - dalla raccolta e molitura delle olive fino al confezionamento del prodotto - devono svolgersi obbligatoriamente all’interno della Toscana. Per avere un’idea dei costi - ci fanno sapere dal Consorzio Toscano - per la certificazione IGP dell’olio, si è intorno ai 100 euro (+ IVA) per una partita di 250 kg di olio. Secondo i dati diffusi dalla guida ‘Gli oli a denominazione di origine protetta’ presentata da Federdop lo scorso giugno, in Italia su 249 denominazioni riconosciute, ben 43 sono state attribuite agli oli extravergine di oliva di cui l’IGP per quello toscano e il DOP per gli altri oli. In base ai dati diffusi, nel 2012 i volumi di vendita degli oli che hanno ottenuto marchi di qualità hanno registrato un incremento dell’1% rispetto al 2011 passando da 2.735.533 litri a 2.770.764 litri. L’analisi dei volumi di vendita ha mostrato che il 30% degli oli DOP/IGP venduti attraverso la GDO è stato acquistato in Lombardia, a seguire l’Emilia Romagna (14%), il Veneto (13%), il Piemonte e Val d’Aosta (11%), la Toscana (10%) e il Lazio (5%). Passando ad analizzare i prezzi degli oli IGP e DOP praticati all’interno della grande distribuzione si è evidenziato che il prezzo più alto è riscontrabile in Trentino dove nel 2012, mediamente, un litro di olio DOP/IGP è stato venduto a 12,37 €/lt, seguono la Lombardia (10,98 €/lt), il Veneto (10,85 €/lt), la Toscana (10, 51 €/lt) e il Lazio con un prezzo pari a circa 10,40 €/lt. Sostanzialmente, nelle regioni del Nord, il prodotto si colloca su livelli di prezzo più remunerativi, «sia in considerazione delle quantità più esigue, sia per una maggiore disponibilità da parte dei consumatori a riconoscere e “apprezzare” tali produzioni», ha sostenuto Silvano Ferri, presidente di Federdop, che ha poi evidenziato «la necessità di strutturare politiche di prezzo che risultino maggiormente premianti per un prodotto di qualità quale l’olio a denominazione in modo da poter remunerare adeguatamente gli operatori valorizzando al meglio tali oli».

Le principali fasi della produzione di olio di oliva e l’impatto ambientale

L’agricoltura è intrinsecamente legata alla tutela e al consumo delle risorse del Pianeta. Per questo, negli ultimi anni, in ogni settore agricolo sono in fase di attuazione e studio pratiche di produzione e lavorazione volte a ridurre l’impatto ambientale. Grande attenzione vi è poi in relazione all’impatto dei residui e rifiuti dell’olio, in particolar modo se disperso in natura in modo erroneo. A tal riguardo sono sempre maggiori le iniziative di raccolta degli oli esausti messe in campo dai consorzi e dai comuni stessi. A ciò si affianca una filiera sempre più diffusa di riutilizzo di tali “scarti”, come nel caso della produzione di biocarburanti. In Europa un progetto Life è volto a mettere insieme e diffondere le migliori pratiche connesse alle diverse fasi della coltura e della lavorazione degli oli d’oliva. La prima fase nella produzione di olio è costituita dalla frangitura, da cui deriva la “sansa”, ovvero la pasta di olive frantumate. Seguono la spremitura e la separazione del composto in olio, acqua ed elementi solidi.

La tutela del suolo e delle risorse naturali

Uno degli impatti più gravi associati alla coltura intensiva degli olivi è legato all’erosione del suolo, che riduce la capacità produttiva del terreno, necessitando quindi di un uso maggiore di fertilizzanti. In alcuni casi, quando la monocoltura è associata a determinati tipi di suolo, tecniche agricole come l’aratura meccanica e condizioni climatiche, l’erosione può arrivare a degradare il terreno fino alla desertificazione. Come riportato dal Life Focus 2010 “Buone pratiche per migliorare il rendimento ambientale nel settore dell’olio d’oliva”, modificando i metodi di coltura, queste problematiche possono essere limitate, per esempio con un’aratura meno profonda o attraverso il mantenimento di una copertura erbosa. Per combattere insetti quali la mosca dell’olivo (Bactrocera oleae), la tignola dell’olivo (Prays oleae) e la cocciniglia mezzo grano di pepe (Saissetia oleae), si è ricorso, soprattutto in passato, all’uso massiccio – anche solo in via preventiva, ovvero anche senza verificare neanche la reale presenza infestante – di diserbanti, pesticidi, insetticidi e fertilizzanti, con elevati costi in termini economici e ambientali, a causa dell’inquinamento del terreno, delle acque (di superficie e sotterranee) e anche del prodotto stesso (pianta e olive). Oggi, anche a seguito di normative comunitarie, la direzione è di andare concretamente verso lotte attuate cercando di rispettare concretamente l’ambiente, con l’intervento chimico (vd. Reg. CE 2078/92), previsto solo quando il grado di infezione delle malattie o fitofaghi superano una certa percentuale e comunque entro certi limiti. Tra le tecniche più ecocompatibili, andando in tale direzione, sono adesso in fase di sperimentazione le trappole a feromoni.

Estrazione dell’olio e trattamento delle acque di vegetazione e di sansa umida

Tra i principali aspetti di lavorazione dell’estrazione dell’olio che destano particolare interesse vi sono le grandi quantità di residui liquidi e solidi, che possono risultare altamente dannosi per l’ambiente se non riutilizzati o smaltiti correttamente. Tali fasi possono richiedere, inoltre, l’utilizzo di grandi quantità d’acqua. Non tutte le tecniche, però, hanno gli stessi impatti: ognuno dei vari metodi di produzione di olio d’oliva dà origine a quantità e tipi diversi di sottoprodotti, potenzialmente pericolosi. I metodi di trasformazione tradizionali, generalmente dagli impatti ambientali minori, sono però sistemi “discontinui”: il processo è soggetto a interruzioni, da cui derivano singoli lotti di olio, anziché una fornitura continua. Infatti, gli impianti più grandi utilizzano solitamente turni continui durante la raccolta e frangitura. Secondo quanto riportato dal citato Life Focus 2010, si stima che, con i metodi tradizionali di trasformazione, per ogni tonnellata di olive vengano prodotti tra i 400 e i 600 litri di “acqua di vegetazione”, ovvero acque reflue di frantoio. Nel processo a tre fasi vengono prodotte tra gli 800 e i 1.000 litri di acque di vegetazione per tonnellata. Il processo a due fasi, invece, non genera praticamente effluenti, ma la sansa umida prodotta tende a presentare contenuti elevati di liquidi, che devono essere trattati. Secondo il citato Life, a livello europeo vengono prodotti circa 4,6 milioni di tonnellate di acque reflue di frantoio: sono costituite per il 15-18% da composti organici, tra cui fenoli, polifenoli e tannini; elementi inorganici come potassio, sali e fosfati per il 2%; il restante è acqua. Queste percentuali, ovviamente, possono poi variare a seconda di molti fattori, tra cui clima, terreno, pratiche di gestione agricola, trattamenti. Esistono diversi metodi per diminuire l’impatto ambientale delle acque di vegetazione: i trattamenti degli effluenti sono finalizzati alla riduzione della loro massa complessiva con trattamenti aerobici e anaerobici. Richiedono tuttavia ingenti costi per impianti ad hoc, che vengono utilizzati solo durante la trasformazione delle olive. Diverso è il trattamento della sansa umida derivante dal processo a due fasi: questa viene inviata a oleifici produttori di oli di semi per successive estrazioni di prodotti a base di olio d’oliva raffinato. Tra gli usi ecosostenibili volti al recupero e alla valorizzazione della sansa, si può spaziare dalla produzione di energia da biomassa all’autoproduzione, unitamente agli effluenti, di concime organico da riutilizzare in azienda.

Ulteriori aspetti di riduzione dell’impatto ambientale

Tra le buone pratiche che si registrano sempre più frequentemente nelle aziende, vi sono quelle legate all’energia utilizzata. Si va dal recupero delle biomasse (riducendo così anche l’impatto dei rifiuti e degli scarti di lavorazione quali i noccioli, gli sfasci, ecc.) all’installazione di pannelli solari. In merito al fabbisogno idrico, le best practice vanno dal recupero e fitodepurazione di acque utilizzate dall’azienda all’utilizzo ecoefficiente delle acque. Uno sguardo importante va poi in relazione agli imballi, con la predilezione di materiali riciclati e riciclabili (es. nel caso di uso di cartoni) e l’adozione di buone pratiche quali la possibilità di vendere l’olio sfuso e la vendita di olio in contenitori più grandi. ?

Come si “spreme” l’olio

Per frangitura, spremitura e separazione degli oli possono essere utilizzate diverse tecniche. I metodi cosiddetti “tradizionali” combinano la frangitura su mola di pietra a tecniche di spremitura meccanica; Il processo con decanter in due fasi (che effettua la separazione della sansa umida dell’olio) consiste in un sistema di centrifugazione orizzontale per la separazione e l’estrazione degli oli; Il processo con decanter a tre fasi (che effettua la separazione dei tre componenti ovvero, sansa, olio e acqua di vegetazione) è basato su una tecnologia di centrifugazione orizzontale, ma comprende anche una centrifugazione verticale.

L’agricoltura biologica e l’olio

Tra le attività propriamente volte a ridurre l’impatto ambientale, vi sono quelle “etichettate” sotto le certificazioni Bio. L’agricoltura si può definire biologica quando nella sua pratica non vengono impiegati prodotti chimici di sintesi, ma vengono adottati strumenti e metodi naturali come la rotazione delle colture, pirodiserbo, inerbimento, si utilizzano concimi organici e minerali naturali e, per la lotta ai parassiti, vengono usati solamente prodotti naturali presenti in un apposito elenco. I frutti di questo sistema agricolo, certificato attraverso un sistema di controlli riconosciuti a livello europeo e nazionale, possono fregiarsi dell’etichetta con la dicitura “da agricoltura biologica”, che rappresenta una garanzia per i consumatori perché testimonia che il prodotto è composto da una percentuale di ingredienti “bio” non inferiore al 95% e la quota restante è composta da sostanze permesse. Se invece la percentuale bio è più bassa (tra il 70% e il 95%), deve essere riportata la percentuale del componente biologico. Grazie alla normativa europea, l’intero ciclo produttivo dell’olio biologico è sottoposto ad un sistema di controllo uniformato sull’intero territorio dell’Unione che in Italia è garantito da enti di controllo, accreditati presso il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali e controllati anche dalle Regioni, che possono fare ispezioni anche a sorpresa e devono rispondere a severe norme di indipendenza, imparzialità, efficienza, competenza e affidabilità. Nello specifico del comparto dell’olio, oltre all’assenza di sostanze chimiche di sintesi nella fase di coltivazione delle olive, è necessario che le stesse siano di provenienza locale garantita al 100%. La raccolta della materia prima deve avvenire tra fine ottobre e inizio di novembre e cioè quando il colore delle olive passa dal verde al nero. Per garantire, poi, le migliori caratteristiche organolettiche nel prodotto finale, la raccolta deve avvenire sulla pianta, possibilmente a mano o, in ogni caso, limitando al minimo l’intervento meccanico e sempre su reti e mai a terra. Per evitare che le olive fermentino è necessario che le stesse vengano trasportate nel più breve tempo possibile al frantoio possibilmente in cassette “sfinestrate” in quanto assicurano una buona areazione.

La qualità dell’olio d’oliva

Con il regolamento CE 1019/2002, l’Unione europea ha fissato una serie di standard per garantire la qualità e al tempo stesso informare i consumatori, con particolare riguardo alle informazioni da porre sulle etichette. Il regolamento introduce una distinzione tra “oli vergini” e “oli raffinati”, concentrandosi sull’importanza di garantire l’autenticità degli oli di oliva. Gli oli d’oliva vergini sono definiti come oli ottenuti in modo diretto dalle olive, tramite meccanici o fisici di altra natura, in modo da non alterare l’olio: le olive possono essere trattate unicamente con trattamenti quali il lavaggio, la decantazione, la centrifugazione o la filtrazione. Non si possono aggiungere solventi, altri agenti chimici o biochimici, oppure altri tipi di olio. Possono essere classificati in base all’acidità oleica, come segue: “Olio d’oliva extra vergine”, con un’acidità libera massima, espressa in acido oleico, di 0,8 g per 100 g; “Olio d’oliva vergine”, con un’acidità libera massima di 2 g per 100 g; “Olio d’oliva lampante, con un’acidità libera superiore a 2 g per 100 g. Solitamente gli oli lampanti non sono utilizzati per l’alimentazione.

Gli oli d’oliva non vergini sono classificati in:

“Olio d’oliva”, ottenuto dalla miscelazione di olio d’oliva raffinato e olio d’oliva vergine, con un’acidità libera massima non superiore a 1 g per 100 g; “Olio di sansa di oliva greggio”, ottenuto dalla sansa di oliva mediante trattamento con solventi o altri procedimenti fisici; “Olio di sansa d’oliva raffinato”, ottenuto dalla raffinazione dell’olio di sansa di oliva greggio, con un’acidità libera massima non superiore a 0,3 g per 100 g. La qualità dell’olio dipende da vari fattori, tra cui la spremitura (la prima spremitura tende a produrre un olio della massima qualità), la maturazione ottimale dell’oliva, il tempo. Le olive dovrebbero essere trasformate entro le 48 ore, ma comunque in un arco temporale che non permetta alle olive di fermentare.

"Sfoglia Tekneco #12"

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