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Una febbre da maiale | Tekneco

Una febbre da maiale

Negli ultimi decenni il consumo della carne di maiale in Cina è esploso, quindi anche l’allevamento, per lo più intensivo: come sfamare 500 milioni di suini?

Scritto da il 23 gennaio 2015 alle 8:00 | 0 commenti

Una febbre da maiale

L’Italia non ha importato carni di maiale fresche, refrigerate o congelate, e neanche salami o frattaglie dalla Cina, che si conferma essere il Paese con maggiori rischi per la sicurezza alimentare. È quanto emerge da un’analisi della Coldiretti sulla base dei dati Istat relativi al 2014, in riferimento all’ultimo scandalo alimentare in Cina che ha portato ad oltre 110 arresti per la vendita di carne di maiale contaminata proveniente da animali morti per malattia.

Le importazioni di prodotti agricoli ed alimentari cinesi in Italia sono stimate in oltre mezzo miliardo di euro nel 2014 e riguardano tra l’altro concentrato di pomodoro, miele, riso ed aglio. Secondo i dati del sistema di allerta comunitario, la Cina è al primo posto nella commercializzazione di cibi a rischio per la salute con ben 446 allerte, pari al 14 per cento del totale. Lo scandalo della carne di maiale – che segue di qualche anno quello della presenza di melamina nel latte, che ha portato morti per avvelenamento e paura nei diversi continenti -, è la conseguenza di una politica di contenimento esasperato dei costi. La spinta verso la crescita dell’economia cinese ha infatti determinato conseguenze sul piano della sicurezza alimentare ed ambientale i cui effetti si fanno sentire.
Il mercato della carne di maiale in Cina è in costante ascesa da diversi decenni, e al momento il consumo interno raggiunge quasi i 500 milioni di suini all’anno, la metà di quelli di tutto il Pianeta: circa 39 chili procapite, cinque volte di più della quantità consumata nel 1979. Secondo gli esperti, sia la produzione che il consumo continueranno a crescere. Le conseguenze dal punto di vista ambientale e del benessere degli animali sono devastanti. Circa l’80% dei suini allevati proviene da allevamenti industriali molto vasti, dove gli animali vivono in condizioni disumane. «Il Grains Council degli Stati Uniti, un ente commerciale, prevede che entro il 2022 la Cina avrà bisogno di importare tra i 19 e i 32 milioni di tonnellate di mais. Che equivale a una quantità tra un quinto e un terzo dell’attuale commercio mondiale di mais – riporta un dossier del periodico inglese The Economist -. Il risultato è che la destinazione d’uso dei terreni sta cambiando drasticamente dall’altra parte del globo. In Brasile, più di 25 milioni di ettari di terreno (parte dei quali una volta era foresta pluviale dell’Amazzonia) vengono utilizzati per coltivare soia. Intere specie di piante e alberi vengono sacrificate per ingrassare i maiali della Cina. L’Argentina, per far posto alla soia, ha abbattuto migliaia di ettari di foresta e spostato il suo tradizionale allevamento di bestiame in zone remote. Dal 1990 il numero di acri che l’Argentina ha ceduto a questa coltivazione è quadruplicato: il paese esporta quasi tutta la propria soia (circa 8 milioni di tonnellate) in Cina».

 


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L'autore

Stefania Marra

Stefania Marra, giornalista professionista dal 1994, è stata per circa dieci anni caporedattrice della rivista Modus vivendi. Dal 2005 gestisce il modulo pratico di giornalismo al Master di comunicazione ambientale (CTS/Facoltà di Scienze delle comunicazioni Università La Sapienza). Scrive soprattutto di storia sociale dell'alimentazione e di ambiente, settore per il quale ha ricevuto diversi premi giornalistici.


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