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Dallo scarto la plastica “bio”: una rivoluzione green

Ricercatori dell’IIT stanno mettendo a punto polimeri vegetali in grado di sostituire quelli sintetici. Con impieghi che spaziano dall’edilizia ai robot
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  • elastomers-veg waste objects

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  • cacao husk extruded

    cacao husk extruded

Ogni volta che portate il rifiuto umido al punto di raccolta differenziata pensateci: in un futuro quanto mai prossimo potrebbe tornarvi come parte integrante della vostra futura casa, in sembianza di una felpa di pile, sotto forma di imballaggi alimentari e di tanti altri prodotti che oggi sono prodotti in plastica. Un materiale che ha talmente tanti usi che la sua produzione raggiunge le 300 tonnellate annue, ma i cui rifiuti, se dispersi nell’ambiente, diventano fortemente inquinanti. Ottenere plastiche totalmente green e biodegradabili, partendo da polimeri naturali e non più sintetici, è un obiettivo basilare nel lavoro che sta conducendo il team di ricercatori del gruppo Smart Materials creato e guidato da Athanassia Athanassiou dell’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) di Genova, un centro d’eccellenza mondiale.

Dottoressa Athanassiou, ci spiega che tipo di ricerca state portando avanti?

Il gruppo di lavoro che coordino si occupa di nuovi materiali: quelli provenienti dagli scarti vegetali e al 100% biodegradabili sono una parte della ricerca che stiamo svolgendo. Stiamo sviluppando compositi, e abbiamo visto che, anche su altre applicazioni inimmaginabili in passato, possiamo sostituire i polimeri sintetici con i nuovi provenienti dai rifiuti. È una ricerca ad ampio spettro che punta sempre di più sull’uso di questa “nuova generazione” di plastiche biodegradabili. Dall’altra parte stiamo sviluppando diverse tecnologie per sfruttare gli scarti vegetali: per esempio, stiamo lavorando sulla possibilità di suddividere il materiale di scarto in microparticelle e di disidratarlo creando una plastica amorfa 100% vegetale. Inoltre, lavoriamo su materiali che hanno il 60-80% della loro parte di origine vegetale, sempre biodegradabili, termoformabili e iniettabili o estrusi, simile, ad esempio, al polistirene. Per esempio, sfruttando lo scarto del cacao, abbiamo creato dei “fili” o pellet impiegabili per stampati estrusi (utili per svariati impieghi industriali, ottenuti attraverso lo stampaggio con presse ad iniezione) o per stampanti in 3d. Un’altra modalità di impiego che abbiamo trovato è quella in combinazione con elastomeri a base silicone (sintetici, ma biodegradabili) utili come sigillanti. Ci troviamo di fronte, quindi, a diversi utilizzi e filiere produttive in cui si possano impiegare questi scarti, con applicazioni che spaziano dai vestiti agli imballaggi alimentari.

Estruso dalla buccia di cacao

Come avviene la trasformazione dello scarto in plastica?

La prima operazione è quella di “polverizzazione” per ottenere particelle di qualche micron, e disidratazione, in modo da rendere più facile le interazioni chimiche. Poi, debitamente filtrato, utilizziamo qualche agente chimico o solvente per rendere lo scarto duttile agli impieghi voluti.

La ricerca che state conducendo è mirata su tutti i tipi di scarti vegetali?

Sì. La nostra ricerca oggi si focalizza su scarti di cacao, bucce d’arancia e di pomodoro, ma è estendibile a qualsiasi rifiuto vegetale, in cui siano presenti i polimeri naturali come cellulosa, lignina, pectina. Ogni scarto ha proprietà e componenti peculiari che possiamo sfruttare per fini specifici.

Vegetali e prodotti derivati

Elastomeri vegetali e loro materie prime

Visto che circa un quinto della plastica trova impiego in edilizia, che tipo di impieghi si aprono per questo settore?

Abbiamo avviato una collaborazione con un istituto di architettura a Barcellona per impiegarli in materiali da costruzione. Sono progetti che si stanno sviluppando proprio in questo momento e nel giro di poche settimane sapremo gli specifici impieghi pensati. Siamo molto curiosi del risultato, perché lo spettro di impiego per l’edilizia potrebbe essere assai ampio: si va dai materiali per l’isolamento termico o acustico, a quelli per ricoprire le facciate. Per esempio, la plastica amorfa offre duttilità e trasparenza, così da avere una particolare interazione con la luce, che si può tradurre in rivestimenti per le facciate degli edifici capaci di assumere un colore diverso al variare della luce esterna.

Le nanotecnologie come entrano in gioco in tutto questo?

Già da diversi anni le nanotecnologie sono utilizzate per cambiare le proprietà della plastica, che è un pessimo conduttore termico ed elettrico, ma che, con l’impiego di materiali nanoinclusi, cambia le proprie caratteristiche e proprietà. Siamo riusciti ad ottenere materiali con proprietà anti batteriche oppure materiali magnetici o in grado di emettere luce. Stiamo studiando una tecnica per realizzare una plastica trasparente per imballaggi, in grado di “leggere” le condizioni dell’alimento avvolto. Una specie di “cartina tornasole” che, grazie alle sostanze che fuoriescono dall’alimento, indicano lo stato di scadenza dell’alimento. In questo modo potremmo ovviare alla necessità di stampare “la data di scadenza” sulle confezioni, perché queste stesse “leggeranno” immediatamente la freschezza del prodotto. Uno strumento in più per il consumatore.

La vostra ricerca sta anche lavorando sulla possibilità di rendere meno impattante la stessa plastica tradizionale con un impiego “ibrido”…

Proprio così. La plastica naturale ha ancora molta strada da percorrere prima di arrivare alle proprietà tipiche della plastica sintetica, quindi non possiamo sostituirla completamente. La forma ibrida, però, cioè ottenuta legando la plastica naturale a quella da petrolio (che verrà usata in minore quantità), già ci permette di ottenere un materiale utile per alcune applicazioni, meno impattante dal punto di vista ambientale.

Si parla da tempo delle incredibili proprietà del grafene, da molti giudicato il materiale del futuro. Nella vostra ricerca è previsto un suo utilizzo in combinazione con le plastiche vegetali?

Il grafene è uno dei materiali nanoinclusi della nostra ricerca e che utilizziamo sempre di più perché con esso è possibile cambiare le proprietà della plastica, ottenendo così alcune caratteristiche altrimenti impossibili con altri materiali. Grazie ad esso possiamo cambiarne le proprietà meccaniche, elettriche, termiche, ottiche, di resistenza all’impatto. Inoltre, quello che del grafene ci piace di più è che anch’esso è un materiale naturale e organico, quindi biodegradabile.

La vostra ricerca è sostenuta dalle industrie?

Partiamo dal presupposto che le nostre ricerche nascono avendo in mente la loro scalabilità industriale, ovvero la possibilità di passare dal laboratorio alla produzione a larga scala. Le aziende ci hanno aiutato in questo, grazie a diverse collaborazioni, identificando i processi da mettere in atto. Alcune di queste collaborazioni sono dei progetti in cui le aziende decidono di investire anche economicamente, con l’obiettivo di potere innovare i loro stessi processi. Il beneficio è quindi bilaterale. Abbiamo diverse progetti in corso, con realtà nazionali e internazionali, attive in diversi ambiti dagli imballaggi all’abbigliamento. Stiamo lavorando, a questo proposito, alla nascita di un consorzio specifico. Tra l’altro segnalo che l’altra divisione di ricerca IIT dedicata alla robotica sta lavorando alla creazione del primo robot con parti totalmente biodegradabili a fine vita. E anche in questo caso stiamo creando un consorzio a sostegno.

Quanto tempo ci vorrà per passare dall’ambito della ricerca all’applicazione industriale?

Prevedo che il primo impatto sul mercato non avverrà prima di due anni.

Autore

Andrea Ballocchi

Andrea Ballocchi

Andrea Ballocchi, giornalista e redattore free lance. Collabora con diversi siti dedicati a energie rinnovabili e tradizionali e all'ambiente. Lavora inoltre come copywriter e si occupa di redazione nel settore librario. Vive in provincia di Milano.

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