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Cop 20 lima

Clima di fallimento

La conclusione della Cop 20 porta a un nulla di fatto e gli ambientalisti ripongono le speranze nella Cop 21 di Parigi. Ma il contesto non favorirà un accordo sul clima

Scritto da il 19 dicembre 2014 alle 18:11 | 0 commenti

Clima di fallimento

Meno male che ci sono le nuove tecnologie. La settimana scorsa, infatti, ho potuto incontrare via web alcuni italiani presenti a Lima, tra i quali Maria Grazia Midulla, responsabile clima del Wwf Italia e Veronica Caciagli presidente Italian Climate Network, durante la quale è intervenuto anche Sergio Castellari, climatologo, Focal Point dell’IPCC per l’Italia, che ha confermato quella che fino ad allora era solo una mia impressione: la strada per una limitazione delle emissioni, non è in salita, ma è interrotta. E ho forti dubbi che nel giro di un anno si riesca a costruire l’opzione minima del “ponte tibetano” per raggiungere l’obiettivo dei 2 °C al 2100. Secondo Castellari, infatti, si uscirà da Parigi l’anno prossimo con un accordo che vedrà “contributi” anzichè impegni vincolanti, sistemi flessibili e revisione del tutto ogni cinque anni. E c’è da aggiungere che senza impegni precisi sulla mitigazione, ossia sulle emissioni il ponte non si costruirà proprio. E di tutto ciò non si è discusso a Lima in realtà la questione centrale , come sostiene in una sua nota su Facebook, Toi Bianca, giornalista presente alla Cop 20: «a Lima non s’è negoziato sulla riduzione delle emissioni e temo nemmeno a Parigi accadrà. S’è discusso e litigato solo su “adattamento”, “green fund”, “loss and damage”. Cioè sui soldi. [...] La gente può continuare a pensare che si discute su come salvare il pianeta, leggere balle sugli accordi “poco ambiziosi” senza sapere che “l’ambizione” riguarda i miliardi di dollari da pagare ai paesi poveri e non le misure per limitare le emissioni. Sarebbe bello che qualcuno dicesse che il re del cambiamento climatico è nudo».

Del resto a confermare ciò c’è un intero contesto, spesso sottovalutato, che offre un quadro sintomatico da un lato, ma che è necessario tenere in grande considerazione visto che i cambiamenti climatici sono inseriti in maniera organica in una rete di “relazioni” e “cause ed effetti” che molto spesso si ignorano durante le Cop, come se l’unica cosa importante fossero i trend climatici.

Il primo fatto, che ci riguarda oltretutto da vicino, è l’esaurirsi del ruolo propulsivo dell’Europa, seguito in maniera meticolosa dalle politiche fossili del Governo Renzi, che ha abdicato a una premiership sul fronte climatico e delle tecnologie green. Ed è la nuova commissione Junker che ha dato il via a questa “nuova politica ambientale” nel giro di tre mesi, sotto la presidenza, non dimentichiamolo, italiana. Si è cominciato sdoganando il nuovo nucleare europeo con il via libera alla mega incentivazione di stato dei nuovi reattori britannici, realizzati con tecnologia francese e capitali cinesi, di Hinkley Point, per proseguire con degli obiettivi al 2030 in materia di rinnovabili, clima ed efficienza timidi, contorti e ancora una volta senza alcun vincolo sull’efficienza – un regalo alle utilities europee in crisi per overcapacity – cosa che rappresenterà un freno per l’industria europea, e in particolare per l’Italia che ha una posizione di leadership nei prodotti e nei servizi per l’efficienza – mentre infine è arrivata la cancellazione di due direttive cardine sul fronte della sostenibilità ambientale: quella sulla qualità dell’aria e quella sull’economia circolare. Due provvedimenti che sono stati omessi su precisa indicazione di Business Europe, la confederazione degli industriali europei, della quale fa parte Confindustria. Insomma l’Europa pensa di uscire dalla crisi guardando nello specchietto retrovisore e pensando così di non andare allo scontro frontale con il muro dei cambiamenti climatici. E potrebbe essere, anche, una scelta precisa, spinta da lobby altrettanto attente, quella di favorire vecchi business fossili e inquinanti, guadagnando anche su disastri e sanità che in ultima analisi comunque fanno Pil. A tutto ciò dobbiamo aggiungere indiscrezioni che arrivano dal mondo energetico europeo dove c’è qualcuno che, pare, investa su un aumento della generazione elettrica da carbone del 20% al 2030 nel Vecchio Continente.

Seconda questione è quella legata al nucleare inteso come “arma contro il global warming”: Fonti accreditate danno come certo il tentativo della lobby nucleare di inserire l’atomo all’interno delle politiche strutturali contro il cambiamento climatico, non dimentichiamoci che la Cop 21 si svolgerà nella tana del lupo nucleare, ossia a Parigi e che Francia e Inghilterra hanno un assoluto bisogno di esternalizzare i costi della propria filiera nucleare, civile e militare, attraverso nuovi reattori e anche la Russia in crisi per il calo del prezzo del petrolio e del gas naturale sgomita per installare nuovi reattori. In Europa il 30% dei 300 miliardi di euro (virtuali perchè prodotti dalla leva finanziaria di un fondo per ora di soli 13 miliardi) degli investimenti anticrisi messi sul piatto dalla commissione Junker potrebbe finire all’atomo, il Sud Africa ha varato un piano che prevede otto reattori, mentre la Cina, secondo Bloomberg, potrebbe arrivare a mille centrali nucleari nel 2050 e persino il Giappone, infine, sta pensando di ripartire con il nucleare nonostante Fukuschima.

Terzo fatto è quello legato all’accordo bilaterale tra Cina e Stati Uniti su emissioni e rinnovabili che molti hanno salutato come una novità positiva. La realtà è che prima di tutto si tratta di un accordo che ha degli obiettivi di medio-lungo periodo (mentre la Iea avverte che già nel 2017 avremo esaurito lo stock di emissioni fino al 2030 necessario a contenere l’aumento a 2°C, ossia dal 2017 emetteremo la CO2 che avrebbe dovuto essere emessa dal 2030) e che si tratta di un accordo bilaterale che si inserisce nella logica “storica” degli Stati Uniti da sempre contrari ad accordi globali, nei quali si trovano costretti in logiche poco flessibili, specialmente su un fronte in continuo mutamento come quello geopolitico, ma non solo. Per la Cina, invece, con ogni probabilità non si tratta di una nuova sensibilità verso l’ambiente, ma di una risposta necessaria da dare all’opinione pubblica interna, specialmente al ceto medio emergente, circa i problemi del gigante asiatico, non più procrastinabili, relativi all’inquinamento. Non scordiamoci che a Pechino si raggiungono spesso gli 800 microgrammi per metro cubo di PM10 – in Europa il limite è 35. E a Parigi i due paesi potrebbero decidere di non andare oltre, visto che hanno già fissato obiettivi volontari in autonomia. E oltre a ciò bisogna anche considerare il fatto che con questo accordo Usa e Cina puntano a creare un asse per le tecnologie a basse emissioni in chiave anti europea – come è stato chiaro nel settore dei trasporti con gli incentivi Usa a Fiat, con i quali gli americani hanno acquisito tecnologie difficilmente accessibili in tempi brevi – e in quest’ottica la scelta dell’Unione europea di tirare i remi in barca su rinnovabili, clima ed efficienza – in nome della crisi – equivale a quella di lanciarsi da un aereo senza paracadute, sperando di trovarne uno durante la caduta.

Ultimo fattore è quello della diminuzione del prezzo del petrolio e della sua mobilità. Se da un lato, infatti, troviamo i fondi speculativi che scommettono su un prezzo che a fine 2015 potrebbe raggiungere i 40 dollari al barile – con delle conseguenze difficilmente immaginabili per gas naturale e petrolio russi e per gli shale gas e oil degli Stati Uniti, sotto a un altro profilo l’estrema fluidità dei mercati petroliferi farà fare delle scelte energetiche, che si portano avanti per almeno trenta anni una volta fatte, in direzione delle fonti fossili, non di sicuro verso le rinnovabili.

Da un contesto che ha questi come driver di riferimento quindi c’è da aspettarsi, l’anno prossimo a Parigi, decisioni appropriate per combattere il cambiamento climatico, salvaguardare il benessere delle generazioni future e compensare i paesi poveri dai danni causati ora dagli eventi estremi indotti dal global warming? Penso di aver dato gli elementi ai lettori affinchè si diano da soli una risposta.


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L'autore

Sergio Ferraris

Sergio Ferraris, nato a Vercelli nel 1960 è giornalista professionista e scrive di scienza, tecnologia, energia e ambiente. È direttore della rivista QualEnergia, del portale QualEnergia.it e rubrichista del mensile di Legambiente La Nuova Ecologia. Ha curato oltre cinquanta documentari, per il canale di Rai Educational Explora la Tv delle scienze. Collabora con svariate testate sia specializzate, sia generaliste. Recentemente ha riscoperto la propria passione per la motocicletta ed è divenatato felice possessore di una Moto Guzzi Le Mans III del 1983.


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